La seconda edizione dell’Isola dei Famosi targata Mediaset è partita accompagnata da dati d’ascolto ragguardevoli. Perché diciamocela tutta questa non è né l’isola dei Desnudos, né quella dei due poveri disgraziati della Zattera – il tisanoreico Gianluca Mech e il tronista Cristian Gallella - né tantomeno quella dei semi sconosciuti che popolano Cayo Paloma: questa è l’isola di Simona Ventura. Il vero colpaccio di questa edizione, condotta dalla solita noiosissima Alessia Marcuzzi, è lei e solo lei. Vederla lì agitarsi tra le acque cristalline dell’Honduras, affrontare con forza le prove fisiche, prodigarsi in discussioni sterili con gli altri naufraghi il cui livello intellettivo medio rasenta lo zero, mi ha procurato una stretta al cuore. Simona Ventura è ad un bivio nella sua carriera. Cercare di risollevarsi o sprofondare completamente nell’oblio. E’ un po’ la triste parabola discendente di una donna che voleva diventare direttore di rete e, a posteriori viste le nuove nomine Rai, non vedo cosa avesse in meno la Ventura rispetto ad una Daria Bignardi, attuale direttore di Rai Tre. Quantomeno SuperSimo ci ha strappato più di qualche risata in questi anni durante le sue conduzioni “alcoliche” di programmi che ha contribuito a rendere leader di ascolti. L’isola è per Simona una specie di spartiacque, la vera rivincita sarebbe se riuscisse a vincere la competizione e il prossimo anno tornasse sul piccolo schermo come conduttrice del programma che ha contribuito a rendere così celebre e così amato. Sarebbe uno smacco pazzesco per chi l’ha silurata senza tanti complimenti. Noi tifiamo tutti per lei che a cinquant’anni non si vergogna di mettersi alla prova ed azzarda anche dei bichini ascellari. Va bene, ha la cellulite, non ha il fisico di una pin-up ma è una donna ancora forte e che, a mio parere, ha ancora molto da dare alla televisione italiana. Ma veniamo agli altri naufraghi. Le ragazze che animano la Playa Desnuda sono di una tristezza che nemmeno il più tremendo dei cinepanettoni potrebbe eguagliare. La Bonas di Avanti un altro, la diva della trashissima webseries The Lady di Lory del Santo e l’altra che non so nemmeno chi sia, incarnano la quinta essenza del fallimento delle battaglie femministe per l’emancipazione. Tutta quella lotta per dimostrare che “oltre le gambe c’è di più” e poi, invece, la dura realtà dell’ochetta giuliva torna a tormentarci. Segnaliamo inoltre Enzo Salvi che vive nel suo personaggio di coatto romano praticamente sempre, o sarà davvero così, non ho ancora ben capito, il divo del Segreto Jonas Berami che si è subito attirato le antipatie di mezzo gruppo, Fiordaliso sfigurata in volto dai mosquitos che sembrano gradire il sapore del suo botox, l’egittologo Aristide Malnati che ha ingannato tutti usando un accendino per regalare il fuoco ai naufraghi, Marco Carta al momento non pervenuto e per quanto riguarda gli altri amorfi personaggi che popolano l’isola, beh, sono più interessanti i paguri che vivono placidi sui tronchi.

Oscar 2016 trionfano Morricone e Di Caprio

Martedì, 01 Marzo 2016 16:01
È stata una notte magica quella che ha tenuto incollati milioni di telespettatori tra domenica 28 e lunedì 29 febbraio. Tutti a fare il tifo per il maestro Ennio Morricone e per l’idolo della nostra gioventù Leonardo Di Caprio. Ed entrambi non ci hanno deluso, portando a casa l’ambita statuetta che li consacra, a tutti gli effetti, nell’olimpo del cinema. Dopo anni di ingiustizie perpetrati dall’Accademy e innumerevoli candidature, ben 5 per entrambi senza mai un successo, alla fine i guru di Hollywood si sono dovuti inchinare a due talenti straordinari entrambi made in Italy. Di Caprio è figlio di italiani di quarta generazione. Al momento della premiazione come Miglior colonna sonora originale per il film di Quentin Tarantino The Hateful Eight, il maestro Morricone – accompagnato sul palco dal figlio – ha ricevuto una commovente standing ovation ed ha dedicato – tenerissimo – la vittoria alla moglie Maria. Morricone, nel corso degli anni, ci ha regalato più di 500 colonne sonore, stringendo un importante sodalizio artistico con il grande regista Sergio Leone, amico e compagno di scuola; e con Giuseppe Tornatore: indimenticabile la sua colonna sonora per il film Premio Oscar, Nuovo Cinema Paradiso. Ma quella trascorsa è stata, senza dubbio, la notte di Leonardo Di Caprio. L’enfant prodige del cinema americano che dopo ben 22 anni dalla prima nomination – era solo un ragazzino quando venne inserito nella rosa dei migliori attori non protagonisti per Buon Compleanno Mr. Grape – ha ottenuto il suo riscatto vincendo nella categoria Miglior attore protagonista per la pellicola The Revenant di Alejandro González Iñárritu che si è aggiudicato la statuetta come Miglior regista, vinta peraltro anche lo scorso anno con Birdman. Leo ha spezzato la maledizione da Oscar che l’accompagnava e che lo ha visto perdente in tutti questi anni, tra delusioni, mancati riconoscimenti e beffe sui social. Ma lui non si è arreso ed ha continuato a fare il suo mestiere, confermandosi come il più talentuoso tra gli attori under 50. E’ da quando lo abbiamo visto annegare nell’Oceano in Titanic che abbiamo preso a cuore la causa Di Caprio ed oggi possiamo gioire con lui. Doveva trasformarsi in un cacciatore di orsi, trasandato, un filo barbone e combattere contro il freddo gelido per ottenere ciò che gli spettava già da molto tempo. Migliore attrice protagonista a Brie Larson per Room, mentre Alicia Vikander e Mark Rylance hanno vinto i premi per i migliori attori non protagonisti. Miglior film per Il Caso Spotlight di Tom McCarthy che racconta l’inchiesta da parte di un gruppo di giornalisti del Boston Globe che hanno portato alla luce lo scandalo dei preti pedofili negli Stati Uniti. I giornalisti sono stati premiati con il Premio Pulitzer. Mad Max: Fur Road trionfa con sei Oscar tecnici. Miglior film d’animazione per Bear Story. Grande deluso Sylvester Stallone che non ha ricevuto nessun riconoscimento per il suo Creed. La polemica “razzista” che ha preceduto l’evento l’ha fatta da padrone. Molti personaggi di spicco afroamericani hanno disertato la cerimonia, tra cui Spike Lee, per protestare contro l’Accademy colpevole di preferire, nell’assegnazione delle statuette, attori bianchi ad attori di colore. Infatti nessun attore di colore era presente nelle nomination.
Il prete detective più famoso ed amato della televisione italiana è tornato, e non ce n’è più per nessuno. Don Matteo10 andato in onda giovedì 7 gennaio (e per 12 puntate) ha fatto registrare subito il picco negli ascolti – media di 9.200.000 telespettatori – ed uno share del 35,4% numeri da far leccare i baffi ai vertici di Rai Uno. Il primo episodio ha toccato, addirittura, punte di quasi 10 milioni, dati che solo il Festival di San Remo o la Nazionale di calcio riescono a far registrare. Inoltre #DonMatteo10 è stata trending topic su Twitter, dove orde di internauti tra il sorpreso e lo sgomento erano lì pronte a domandarsi il perché una delle più longeve fiction Rai continui a macinare numeri così alti. Il successo di Don Matteo è da sempre decretato dalla sua naturale e spiccata attitudine ad unire tutta la famiglia davanti alla tv. E’ un prodotto pulito, chiaro, senza troppe elucubrazioni mentali, semplice nella sua originalità, forte di una caratterizzazione tutta italica nel riuscire a creare fiction che mescolino battute, humour, equivoci, fraintendimenti che strappano un sorriso e fanno trascorrere qualche ora davanti alla televisione senza pensare troppo ai problemi che ci attanagliano e senza scervellarci più del dovuto per riuscire a capire chi possa essere l’assassino, tanto ci pensa Don Matteo. E’ la stessa conclusione alla quale ormai, rassegnati, sono giunti il Maresciallo Ceccini – Nino Frassica – e il Capitano Tommasi – Simone Montedoro – che si affannano a trovare il colpevole salvo poi arrivare sempre un minuto dopo Terence Hill. Il prete più veloce del west intuisce quello che i due Carabinieri faticano a cogliere, troppo impegnati tra triangoli amorosi, intrighi e siparietti sempre esilaranti e il più delle volte sul filo del nonsense. Don Matteo, abile e sfrecciante con la sua bici nera sempre lucida e con una messa a punto da far invidia ad ogni rivenditore autorizzato, si divide tra la stazione dei Carabinieri, la scena del crimine, l’ospedale, la canonica, le partite a scacchi con Cecchini e l’immancabile carcere, dove dona consolazione ai delinquenti di turno. I personaggi che ruotano e affollano le vicende incastonate nella bella Spoleto sono caratteristici ed ironici, dagli storici Pippo (il sagrestano) e Natalina (la perpetua) - quanti di noi non vorrebbero che i due convolassero a nozze prima o poi, lo desideriamo dalla prima puntata – alla famiglia del Maresciallo, passando per Laura, Thomas e il numero spropositato di comparse e non che contribuiscono a rendere Don Matteo un evergreen che non conosce crisi, una serie trasversale seguita dai fan della prima ora e catturando sempre più giovani spettatori.
La nuova fiction “Il Paradiso delle Signore” in onda ogni lunedì alle 21.20 su Rai Uno cattura settimana dopo settimana milioni di telespettatori, forte dell’ambientazione nell’Italia post bellica degli anni ’50 dove, tra prodotti confezionati pensati per tutti e gonne ancora sotto il ginocchio, l’orgoglio italico cercava di risollevarsi dopo l’orrenda esperienza della guerra. Anticipato come un prodotto innovativo, una nuova opera corale – che va tanto di moda di questi tempi – un tuffo nei meravigliosi anni che precedettero e spianarono la strada al boom economico dal primo trailer abbiamo, invece, come la sensazione di sentirci più che in Paradiso in un vero e proprio Purgatorio. Una sorta di via di mezzo tra le eccellenze dei prodotti inglesi The Paradise e Mr. Selfridge, dai quali il Paradiso attinge a piene mani, e l’Inferno della solita storiella del triangolo amoroso tra la bella e povera ragazza di paese Teresa alias Giusy Buscemi - che fugge da un matrimonio combinato e da un padre dispotico per recarsi a Milano dagli zii e respirare l’aria nuova del mondo che cambia - e il tenebroso proprietario del grande magazzino Pietro Mori (Giuseppe Zeno) che vive tra i rimpianti del passato e i turbamenti del presente nascondendo,ovviamente, un segreto oscuro. Non poteva certo mancare la figura del guascone inpersonificata qui dall’aitante Vittorio Corti (Alessandro Terzigni ex Gf) che per la prima volta nella sua vita è disposto a rinunciare a tutto per amore. Andando avanti con le puntate (10 in tutto) si avverte come la sensazione di trovarsi dinnanzi a qualcosa di già visto. Alcune situazioni appaiono distanti dalla realtà ed incastonate in un contesto immaginario completamente slegato dalle vicende del tempo e la storyline, così tanto simile alla fiction spagnola Velvet, (le cui prime 2 stagioni sono andate in onda sulla rete ammiraglia) ci conferma il detto popolare che “a pensar male ci si mette davvero poco”. Più che raccontare le storie della miriade di personaggi che affollano questo “sceneggiato” sarebbe stato molto più interessante se si fosse creata una linea narrativa indipendente, approfondendo un attimo di più il contesto storico, la vita che si evolve, la moda del tempo che di fatto viene rilegata ad uno sterile cambio d’abito operato dalla facoltosa Andreina Mandelli. Si sarebbero potute analizzare le nuove tendenze all’interno dei propri filoni evolutivi, dei propri azzardi stilistici, delle battaglie fatte per imporsi. Insomma ci mancano terribilmente le sfilate avanguardiste di Raùl De La Riva. E’ di fatto un prodotto popolare che piace al pubblico generalista perché non spariglia le carte. Confezionando un feuilleton vecchia maniera si va sempre sul sicuro e poco importa se sia “liberamente” tratto dall’opera di Zola “Al paradiso delle Signore” ambientato alla fine dell’Ottocento che, messo a confronto con la fiction Rai, ci appare come un’opera rivoluzionaria. Non ci sono azzardi narrativi, non ci sono guizzi e la storia scema nel continuo interrogarsi su chi, alla fine, la bella Teresa sceglierà tra i due.
Oramai è diventato un classico, un appuntamento fisso, una ricorrenza: cosa vedere in televisione mentre si cena intorno alle 20.30. Se si escludono i pacchi di Affari Tuoi e i moralisti di Striscia La Notizia, il panorama generalista offre davvero risicate soluzioni. I due access prime time di approfondimento sono: Dalla Vostra Parte condotto dal brizzolato Paolo Del Debbio ed Otto e Mezzo guidato dal “mezzo busto più bello della televisione italiana”, Lilli Gruber. Due persone diverse, due modi differenti di fare giornalismo, due stili opposti di conduzione, due mondi inconciliabili. Il motto della trasmissione deldebbiana è: tutti contro il clandestino, il diverso, l’ultimo, l’escluso, cavalcando l’onta politica del messaggio/non messaggio che alcuni politici non ci risparmiano di propinarci ogni santo giorno, facendo leva sulle paure degli italiani, sciorinando numeri di scippi, rapine, omicidi, guarda caso tutti commessi da immigrati irregolari, clandestini e profughi scappati dai centri di accoglienza. Il risultato è una trasmissione fatta di populismo,xenofobia da quattro soldi, discorsi nemmeno degni del “bar dello sport”. Sono 40’ di banalità fatti di ospiti in studio dei diversi schieramenti politici e da collegamenti dalle piazze con persone in difficoltà e gente arrabbiata che punta il dito e sbraita senza avere un vero e proprio nemico, che alla fine è sempre “il politico che mangia alle spalle degli italiani”. Il dibattito non ha una vera e propria cifra stilistica, non c’è la minima possibilità che si arrivi al “dunque” e che alla fine del supplizio, pardon, della messa in onda, si sia approdati ad una soluzione, o quantomeno alla parvenza di un’idea che non sia sovrastata da urla, chiacchiericcio inconsistente, con il padrone di casa che chiude i microfoni – manco fosse Maurizio Costanzo a Buona Domenica – e lascia parlare solo chi pare a lui. Non c’è spontaneità democratica, non c’è confronto, c’è solo un fiume in piena di insulti spropositato che dagli immigrati passa ai musulmani per finire con “prima gli italiani”. Una volta era “Prima il Nord”. Il celebre critico televisivo Aldo Grasso qualche tempo fa in un suo articolo sui talk li etichettò come: “una danza attorno al morto (il cadavere dell’idea). Servono a convertire i già convertiti e a indignare i già indignati”. Geniale! Dall’altra parte su La 7 la signora Gruber con uno stile pacato, gentile, educato, quasi una marziana, si stringe nel suo scudo fatto di competenza e concretezza, dimostrando di saper tenere ben salde le redini della trasmissione, senza sfociare nel cattivo gusto, nel superfluo, nell’ovvio. La discussione è serena, i toni sono appropriati all’orario, ricordiamo che a quell’ora ci sono sempre dei bambini davanti la tv, e cosa sorprendente al termine, complice anche il Punto di Paolo Pagliaro, si riesce quantomeno a trovare il bandolo della matassa. Un esempio emblematico. Qualche sera fa nel salotto di Lilli c’era ospite Eugenio Scalfari e si parlava di politica, etica, crisi dell’editoria, avvicendamento tra digitale e carta stampata, con incursioni nel tema religioso, bene, dall’altra parte c’era uno stuolo di politici che si accapigliavano rivendicando la paternità di un qualche provvedimento. Ovviamente la confusione era totale, anche perché la maggior parte di loro ha cambiato parecchi schieramenti politici e, alla fine, raccapezzarsi diventa proprio difficile.

Musica, torna la Regina Adele ed è subito record

Mercoledì, 04 Novembre 2015 11:44
Ci aveva fatto credere che sarebbe stato un ritorno senza colpi di scena. Ci aveva detto che avrebbe mantenuto un basso profilo e che nessuno si sarebbe accorto del suo ritorno, ma in cuor nostro sapevamo che non era così. Con una breve – e commovente – lettera postata sul suo profilo Facebook, la regina Adele è tornata e abbiamo subito capito che in questi quattro anni di assenza ci era mancato qualcosa. Ci era mancata un’artista solida, tenace, forte, capace di smuovere le corde del nostro animo con la sua voce angelica e potente allo stesso tempo, di scuoterci dal nostro torpore e di renderci consapevoli che, seppur una storia è finita, si può andare avanti, ma resterà sempre dentro di noi il rammarico per le cose che avremmo voluto dire ma che, invece, ci sono morte in gola. Il nuovo singolo “Hello” che fa da apripista al nuovo album “25” – in uscita il 20 novembre - è già un record superando, nella prima settimana, più di 1,11 milioni di download. E’ il disco della maturità, della crescita, della consapevolezza e del “voltare pagina”. Si percepisce un senso di sollievo nei testi e nel modo di cantare, non c’è la “tragica sottomissione” del suo precedente disco “21”, non si avverte la disperazione che c’era in “Someone like you” o in “Set fire to the rain” ma c’è la consapevolezza che qualcosa è cambiato, che è stato fatto un viaggio lungo e che si è giunti finalmente alla meta. Quattro anni fa all’apice della sua carriera, con la vittoria di un Oscar ricevuto per la miglior colonna sonora per il film di James Bond “Skyfall”, con 6 Grammy Awards (gli Oscar della musica) e un Golden Globe vinti e 30 milioni di copie vendute, Adele ha deciso di ritirarsi per dedicarsi agli affetti. In questo lungo periodo ha subito una trasformazione radicale, è dimagrita notevolmente – scelta fatta per una questione di salute – ha messo al mondo un bambino, Angelo, ed è serena accanto al suo compagno Simon Koneki. Non è più la ragazzina che voleva bruciare le tappe: «Quando avevo 7 anni avrei voluto averne 8. Quando avevo 8 anni avrei voluto averne 12. Quando ho compiuto 12 anni, avrei voluto averne 18. Poi ho smesso di voler essere più vecchia. Ora sto andando oltre i 16-24 ed è come se avessi passato la mia vita volando via, con il desiderio di essere da un’altra parte. Ho passato la mia vita desiderando di essere più vecchia, da qualche altra parte, di dimenticare o di ricordare. Ho desiderato di non aver rovinato le cose belle per noia o paura». In sua assenza si sono fatte strada le varie Miley Cirus, a suon di scandali, Taylor Swift, con i suoi occhi azzurri, Selena Gomez con la sua faccia d’angelo, ma mai nessuna che sapesse incantare con la voce, che fosse in grado di parlare così direttamente al cuore delle persone,che sapesse incarnare la ragazza della porta accanto e non una diva da copertina. «Ho deciso di essere quella che sono per sempre, senza portarmi in giro i vecchi ricordi. Mi manca tutto del mio passato ma solo perché non voglio tornare indietro. 25 parla di capire quello che sono diventata senza nemmeno rendermene conto. E mi dispiace se ci ho messo tanto tempo, ma nel frattempo c’è stata la vita». Scuse accettate.
È davvero un mistero perché la rete ammiraglia continui a perseverare nell’errore di trasmettere Ti lascio una canzone, in diretta il sabato sera intorno alle 21.20 condotto dal quel prodigio ai fornelli che porta il nome di Antonella Clerici. Ma cosa c’è che non va? Direte voi. Gli ascolti - seppur non ai livelli del competitor di canale 5 “Tu sì que vales” – sono più che dignitosi, il programma è una fucina di talenti, vedi il Volo o Andrea Faustini (XFactor UK), tutto sommato se non esci il sabato sera ti consente di trascorrere un paio di ore piacevoli davanti alla televisione; ed è proprio qui il vero problema. Se si trattassero di 2-3 ore potrei anche starci, in fondo il giorno dopo non si lavora, ma il problema è che guardare Ti lascio una canzone è davvero un impegno, se non un lavoro. Quattro ore di diretta che mettono a dura prova i giurati e la povera Antonella che, diciamocelo, non ha mai avuto il physique du role e si ritrova per le mani una trasmissione lunghissima che dopo la mezzanotte da “spettacolo giullaresco dove si esibiscono bambini/ fenomeni da baraccone” si trasforma addirittura in talent show con l’edizione Big dove gli ex ragazzini prodigio delle scorse edizioni, ormai grandi e completamente irriconoscibili, sono in gara tra di loro in manche dal ritmo serrato e all’ultima nota. E la conduttrice dimostra di non essere tagliata per fare il maestro di cerimonie nella nuova veste che il programma assume dopo aver messo i bambini a letto. Che bisogno c’era di un programma nel programma con il rischio che il povero telespettatore sia costretto a bere bicchieroni di caffè per vedere “come va a finire”? Non sarebbe stata più innovativo fare solo la versione Big? Una sorta di: “come sono diventati adesso”? E’ davvero troppo, si sfocia quasi, mi verrebbe da dire, nel sadismo. Ma mamma Rai sa mettere a dura prova il contribuente, ad esempio, mettendo in giuria Fabrizio Frizzi – un uomo che non ha mai una parola cattiva per nessuno - o la cantante Chiara che se non sviene dalle convulsioni mentre sta cercando di articolare un ingarbugliatissimo pensiero, è davvero un miracolo. E poi c’è la questione dei bambini in tv. Da anni vi è una guerra aperta tra la Rai e l’Aiart (Associazione di telespettatori di matrice cattolica) che accusa la rete nazionale di generare – attraverso queste gare all’ultimo sangue – false speranze nei ragazzi e nei loro genitori. Ora, non vogliamo entrare nella querelle, però almeno due cose bisogna dirle. Quando si appropinqua la mezzanotte e i minorenni non possono più stare – per legge – in televisione scatta (puntualmente) la solita, patetica, scenetta dei ragazzini che in tutta fretta vengono accompagnati fuori. Si potrebbe evitare chiudendo anche 10’ prima il televoto e decretando il vincitore ad un orario civile. Perché non lo si fa? Perché i bambini attirano il pubblico, mettono allegria, fanno colore e poi, perché privarci di questo tremendo siparietto. I ragazzini in gara sono bambini, reclutati dall’età della ragione fino ai 17 anni; come possono dei piccoli virgulti cantare di amori struggenti, di grandi passioni, di esperienze forti come se fossero dei consumati maestri di vita quando, in realtà, hanno solo 10 anni? La trasmissione si riduce poi alla fine dei conti ad un mero esercizio stilistico a chi ha la voce più potente o, in alcuni casi, a chi urla di più. Un bambino di 6-7 anni a quell’ora non dovrebbe già essere a letto da un pezzo? Nelle edizioni precedenti ad essere in gara erano direttamente i bambini – fattore altamente diseducativo- ora in gara sono le canzoni e l’escamotage mi sa tanto di: fatta la legge, trovato l’inganno.
“Chi fermerà la musica?” Recita così il refrain di un loro celebre brano, eppure i Pooh hanno deciso, a partire dal 31 dicembre 2016, di staccare la presa dall’amplificatore e di non cantare più insieme. Come tutti i grandi artisti che si rispettino hanno organizzato una dipartita in grande stile. Il 28 gennaio uscirà un album che raccoglie i loro più grandi successi, scelti direttamente dal pubblico. Un doppio picture disk con all’interno venti canzoni a tiratura limitata ri-arrangiate e cantate a cinque voci. Sì. Avete letto bene, a cinque voci. Per celebrare il loro mezzo secolo di musica, i tre superstiti: Roby Facchinetti, l’uomo dalle note infinite ed altissime, Dodi Battaglia e Red Canzian hanno deciso di alzare la cornetta e di chiamare Stefano D’Orazio (che aveva lasciato il gruppo sei anni fa) e il “figliol prodigo” Riccardo Fogli che mancava da ben 43 anni, da quando insomma decise di abbandonare i suoi amici e di intraprendere, su consiglio dell’allora fidanzata Patty Pravo, la carriera da solista. A posteriori, e visti i risultati, la signora Pravo avrebbe anche potuto farsi gli affari suoi. Riccardo ha detto subito di sì. Attendeva da tempo quella telefonata, ed ha confidato in un’intervista che «gli anni senza i Pooh sono stati difficili». Ma tutto è bene quel che finisce bene e adesso i cinque ragazzi della musica attendono i loro fans per 2 concerti evento: il 10 giugno allo stadio San Siro di Milano ed il 15 giugno allo stadio Olimpico di Roma. Due date per congedarsi dal loro pubblico e per ringraziarlo per averli sostenuti in questi cinquant’anni. Le celebrazioni di una delle band più longeve della storia della musica, con all’attivo 100 milioni di dischi venduti, una miriade di singoli in vetta alle classifiche e la consapevolezza di aver consegnato alle generazioni future capolavori come “Noi due nel mondo e nell’anima”, “Piccola Katy”, “Chi fermerà la musica”, “Tanta voglia di lei” e alcuni musical, sono già partite, accompagnate però da un solo un cruccio: quello di non aver tentato di sfondare nel mercato estero. Oltre il Bel Paese non hanno rischiato, e non perché avessero timore di un flop, ma perché hanno preferito “curare il loro orticello” come ha dichiarato Facchinetti – membro storico e padre fedele del gruppo – e poi le coincidenze fortuite hanno fatto il resto. Tutto è iniziato con una cover dello Spencer Travis Group, con quei ragazzi che somigliavano così tanto ai Beatles ma erano anche così diversi da loro. Hanno saputo, a differenza dei 4 ragazzi di Liverpool, forse mettere da parte le proprie individualità ed intemperanze e dedicarsi gli uni agli altri. Hanno prodotto anche album da solisti, ma hanno attribuito all’unione, allo stare insieme, al progetto Pooh, un valore superiore anche a loro stessi. Ed è per questo che tutto si concluderà nel 2016, ed intanto in radio fa capolino da qualche giorno la riproposizione di un loro classico “Pensiero” in chiave rock. Vedere quelle cinque giacche appese ad una rastrelliera, il capello canuto di Fogli ondeggiare mentre suona il basso, il volto sempre giovane di Facchinetti che si dimena alle tastiere, le mise aderenti di Battaglia e l’immancabile giacca rossa di Canzian: un po’ di tenerezza te la trasmettono. Ma non è pena, attenzione, è solo tenerezza. Non sono 5 signori che sparano gli ultimi colpi prima di avviarsi sul viale del tramonto, sono ancora forti, ancora attivi, ancora sul pezzo e ci dimostrano che si può rimanere grandi per sempre anche quando i riflettori si spengono.
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