Ce l’avevano proposta come la Dowton Abbey italiana. Un po’ pretenzioso ed anche presuntuoso. La nuova fiction di RaiUno Grand Hotel, in onda ogni mercoledì sulla rete ammiraglia, del piccolo gioiello targato ITV1 non ha proprio nulla. E meglio così! Almeno ci evitiamo paragoni imbarazzanti e tentativi di giustificare improbabili adattamenti. Eppure una trasposizione è stata fatta. Grand Hotel, infatti, è la versione italiana dell’omonima serie di culto in Spagna, dove ha ottenuto un enorme successo. E fin qui non c’è nulla di male, molti prodotti sono stati importati dalla terra iberica e con notevoli risultati. Ma qui c’è qualcosa che non va. In un non ben identificato punto dell’Alto Adige si svolgono le vicende dei protagonisti di un albergo di lusso, gestito da Donna Vittoria, borghese arricchita, che non ha il minimo piglio e il minimo sarcasmo che contraddistingue Lady Violet (scusate, si era detto niente paragoni), che ordisce trame e nasconde terribili misfatti. Al suo fianco il perfido ed avido Marco Testa (Andrea Bosca), direttore dell’hotel ed innamorato di Adele (in personificata dalla bella e talentuosa Valentina Bellé), figlia di Vittoria Alibrandi e del suo defunto marito, tornata da Vienna per partecipare alla Festa della Luce, che sancirà l’effettivo passaggio dal gas alla lampadina, quella che conosciamo noi. La situazione si infittisce quando giunge all’hotel di lusso l’affascinante Pietro Neri (interpretato dal bravissimo Eugenio Franceschini), in cerca della sorella Caterina, cameriera all’albergo, che non da sue notizie da più di un mese. Per scoprire che fine ha fatto l’amata sorella Pietro, si fa assumere come cameriere e stringe un’amicizia immediata con Angelo, anch’egli cameriere e figlio di Donna Rosa, la supervisor delle signorine che lavorano per donna Vittoria. I colpi di scena sono notevoli e disseminati lungo tutto il racconto: omicidi, invidie, misteri, vecchi rancori, voglia di riscatto sociale, ambizione e soprattutto segreti fanno capolino nel racconto, al di sopra del quale, come in ogni fiction che si rispetti, domina la storia d’amore contrastata tra Adele e Pietro. Contrastata, naturalmente dai soldi. Vittoria infatti vuole far sposare la bella figliola con Marco per assicurarsi così l’appoggio incondizionato dell’infido direttore.    

 

Ma qualcosa ancora non va. Sarà il clima nordico dell’ambientazione, per carità le immagini proposte dal drone sono spettacolari, bellissime, solo a vederle si riempiono i polmoni di aria pura, ma sono fredde, senza passione, senza calore, senza intensità. L’inizio della fiction parte con il botto, subito un omicidio - quel cadavere nel lago che ricorda tanto l’incipit di un’altra fiction Rai, La dama velata - proseguendo poi perde sempre più di ritmo - la scena della taverna è degna dei fratelli Bravo in Tierra de lobos (altro prodotto spagnolo) - e la mancanza di velocità unita al fatto che non ci sia poi tutta questa differenza tra servitù e “nobiltà”, fanno il resto. Il linguaggio in cui il signorino Jacopo Alibrandi (Dario Aita) si esprime è davvero troppo contemporaneo anche per chi, come lui, è un giovane viziato che conosce il mondo. I nuovi borghesi arricchiti che aspirano a diventare classe dirigente rivelano tutti i difetti del loro basso ceto e qui, la figura di Pietro risalta su tutti i finti nobili. A fare da cornice i vestiti e il clima rivoluzionario della belle èpoque.

Il rischio dei racconti corali, dove anche la servitù ha una vita forse più esaltante di tante altre che popolano il film, è il cadere nella confusione. Quando c’è troppo da raccontare si rischia di dire troppo e alla fine non far arrivare nulla.

 

Insomma al di la dello scopiazzo, al di la dell’atmosfera alle volte troppo cupa, e al di la del fatto che i due protagonisti, dopo due puntate, si sfiorino ancora appena, come se fossimo in un terribile film polacco, non può reggere ancora per molto. Le chance di far bene ci sono tutte: il mistery c’è, il giallo anche, i due giovani ragazzi sono belli e bravi, ora manca solo che la fiction tiri fuori l’asso dalla manica e con un colpo di reni cerchi di risollevare la situazione perché, in vista della sfida contro la settima stagione di Squadra Antimafia, non so se Grand Hotel ce la farà a mantenere i 3 milioni e mezzo di spettatori dell’ultima volta. 

Struggente. Se mi chiedessero di descrivere con un aggettivo il romanzo di Edith Wharton “L’età dell’innocenza” credo che userei proprio questo. Struggente è la definizione più calzante per il grande capolavoro della letteratura americana pubblicato nel 1920 e che valse all’autrice il premio Pulitzer nel 1921. Perché è di questo che si tratta, di un capolavoro, di un piccolo gioiello che ci restituisce un ritratto cristallino, sprezzante, lucido della società newyorkese di fine Ottocento, un piccolo microcosmo che si snoda tra la Quinta e la Ventinovesima strada (considerata già periferia, con le case dalle piastrelle nere sulla facciata) fatto di riti, convenzioni, ossequi, riguardi, ottuso perbenismo dove la vendetta si consuma “senza spargimenti di sangue” e dove la norma è quella di non confidarsi ma lasciare all’intelligenza dell’altro cercare di leggere tra le righe, di carpire dal movimento degli occhi, dalla posizione del corpo se c’è o meno qualcosa che non va. I sentimenti più intimi devono essere taciuti cosicché tutto possa rimanere nella normalità.

Un romanzo dinamico, dallo stile preciso, descrittivo, dove i ritratti che vengono fatti dei personaggi e dell’ambiente ricordano i quadri impressionisti, e dietro i cappellini dalla veletta si celano inquietudini, drammi, malinconia e voglia di ribellione.

E’ la storia di un amore sbocciato e soffocato dalle regole che vede come protagonista la bellissima ed anticonformista contessa Ellen Olenska, cresciuta all’europea, che fugge da un marito (il polacco conte Olenski) dispotico, depravato e dai gusti sessuali “vari” per ritornare a New York e trovare rifugio tra la sua gente, che però non la comprende e disapprova le sue scelte. L’unico che sembra comprendere la voglia di libertà di Ellen è Newland Archer, avvocato ed aristocratico, fidanzato con la cugina di lei, May Welland che incarna la perfetta fidanzata e la futura perfetta moglie. Ellen rappresenta tutto quello che Archer aspira a voler diventare ma che non diventerà mai, lei è forte, indipendente, autonoma, libera di frequentare le feste considerate poco rispettabili dalla famiglia, libera di trattare alla pari la sua domestica, curiosa di tutto ciò che è arte, cultura, di tutto quello che rappresenta la novità. Mentre Ellen vive la sua vita e sconta la sua punizione per essere “così diversa”, Archer si crogiola nella sua autocommiserazione, pensando al fatto che la sua esistenza si svolgerà tra le quattro mura domestiche, lo studio legale, il circolo e sarà costretto a vivere per sempre al fianco di una donna “limitata” e che considera strambe tutte le cose che non conosce.

La forza del libro, oltre al sarcasmo e al tono sprezzante utilizzato dalla Wharton, è la tensione amorosa che è palpabile quando Ellen ed Archer si trovano nella stessa stanza, i baci rubati, la voglia di vedersi che spinge alla menzogna, lo sfiorarsi la mano anche solo per sbaglio, cercare di combattere contro tutto e tutti ma poi scoprire di non averne la forza e rendersi conto che l’educazione e l’apparenza contano più di ogni altra cosa.

E’ il classico libro che non ti aspetti, che ti fa riflettere e considerare come l’amore viene visto e trattato ai giorni nostri. Oggi si usa il proprio corpo come merce di scambio, si usano i sentimenti degli altri per ottenere piaceri, favori o per consumare vendette, si tratta l’amore come qualcosa di cui poter disporre a proprio gusto e il sesso è diventato l’unica consolazione ad una vita pressoché sterile. Chissà con che occhio avrebbe guardato la Wharton la società di adesso, allora come oggi i soldi e l’apparenza contano più di ogni altra cosa, forse ne avrebbe apprezzato la libertà e la mancanza di pudore, ma si sarebbe anche resa conto che oggi come allora ancora permangono alcuni tabù e alcuni limiti davvero insormontabili.

Mi rendo conto che siamo in estate, che i palinsesti televisivi languono, che sono già partite le repliche del Commissario Rex e attendiamo tutti trepidanti quelle del Medico in famiglia, che facendo zapping ci sale la febbre nel vedere il nulla più assoluto spiattellato su 24h di messa in onda (intervallato da talk show improbabili), ma credo fermamente che, in questo periodo, complice la calura estiva, il povero telespettatore meriti un po’ più di rispetto ed un briciolo di considerazione. Ed invece no, la rete ammiraglia, sadica come poche, ci propina, cavalcando l’onda (o meglio onta) della reunion artistica, il nuovo (?) programma del pomeriggio di Rai Uno, “La posta del cuore” dal lunedì al venerdì alle 16.40, condotto, manco a dirlo, da Fabrizio Frizzi e (rullo di tamburi) Rita Dalla Chiesa.

Oddio, che strazio! Un programma più antico dei ruderi del Colosseo, che spolvera storie e racconti di gente comune alle prese con i piccoli e grandi problemi della vita di tutti i giorni: dalle crisi di cuore, ai tradimenti, passando per le grandi scelte esistenziali, dove uomini e donne chiedono consiglio ai due ex coniugi. Che idea geniale! 

In uno studio in pieno stile anni ’80 con una finta veranda dalla quale si intravedono piante, una libreria in lontananza, le poltrone tutte intorno ed ecco servito l’emotaintment – talk dove la banalità e la melassa regnano sovrane. In studio ad affiancare gli ex coniugi, che di tanto in tanto, si scambiano sguardi complici ma che ricadono in un clima di assoluta noia (non si avverte nemmeno un briciolo della guerra fredda che c’è tra Albano e Romina Power, loro si che ci danno delle soddisfazioni); c’è una blogger e una psicoterapeuta e naturalmente l’ospite della puntata, ansioso di spiattellare i fatti propri in tv e farsi dare dei preziosi suggerimenti. Frizzi introduce la storia e lo fa da perfetto padrone di casa qual è, anche se il suo stile è vecchio, antiquato e monocorde; ogni volta che lo vedo mi domando sempre se rida perché tutto lo fa ridere o perché vuole fare bella figura o peggio ancora perché la battuta fatta è talmente stupida che, per sollevare l’interlocutore dall’imbarazzo, preferisce farsi due risate.

Si discute della storia in questione, perlopiù corna, e alla fine la sacerdotessa Rita formula il proprio consiglio, manco fosse l’oracolo di Delfi. Il racconto è intervallato da filmati girati in esterna per rendere la storia più comprensibile e per mettere in evidenza alcuni dettagli che sono sfuggiti o per approfondirne altri. Seguono video messaggi in cui varie persone chiedono “consiglio” a Fabrizio o Rita.  La mancanza di diretta nuoce, e di parecchio, al prodotto e toglie un po’ di ritmo, ma non basterebbe quella a salvarlo.

Tutto è edulcorato, stantio, ammorbante e soprattutto già visto. La posta del cuore c’è sempre stata, in tv, sui giornali, ricordiamo tutti la celebre Donna Letizia, ma la forza di quelle piccole missive con annessi consigli era il restare anonimi senza metterci la faccia o il nome in quel caso specifico, dove ragazze degli anni ’60  raccontavano i loro turbamenti e ricevevano le risposte veementi e diplomaticamente compiaciute di Donna Letizia, che forniva suggerimenti da donna assennata a donne che stavano viaggiando troppo veloce per i loro tempi. Adesso dove tutta la nostra vita è sui social, dove chiunque per strada è pronto a darti un consiglio pur di sapere i fatti tuoi, dove si aprono gruppi su internet per le più svariate stupidaggini, dove pur di sentir parlare di problemi che, siano di amore o i mutui o di alieni, si può essere facilmente invitati alla trasmissione Quinta colonna, mi domando se serva ancora un’ambientazione e una tv dei bei tempi andati che ci aiuti a risolvere questioni di cuore. Davvero, non so.

 

L’unica cosa che ho apprezzato di questo programma, oltre al fatto che duri solo un mese, è stato il ritorno in tv di una donna di classe e mai sopra le righe come Rita Dalla Chiesa. Dopo il ben servito di La7 e la sua volontaria uscita da Forum per lasciare il posto ad un’antipaticissima Barbara Palombelli, è tornata finalmente in tv e, complice il suo occhio ceruleo e la sua innata eleganza, ha portato un po’ di charme tra le varie Isoardi che popolano il nostro tubo catodico. 

E’ stata una serata amarcord quella che si è consumata venerdì 29 maggio su Rai Uno. Lo spettacolo “Signore e signori Al Bano e Romina” in diretta dall’Arena di Verona, gremita in ogni ordine di posto, ci ha consegnato un’istantanea di ciò che eravamo e che non siamo più. Lo show ha ottenuto un successo straordinario di pubblico, con quasi 5 milioni di telespettatori, totalizzando il 24,34% di share. Ma lo si sapeva, si era ben consci che riesumando la coppia-non più coppia targata Usa/Cellino San Marco il popolo italiano sarebbe impazzito, e non solo (ricordiamo che i russi, per la loro prima reunion in occasione della festa organizzata dal magnate della tv cirillica nel 2013 per i 70anni di Al Bano, sborsarono più di mille euro a biglietto). Erano 21 anni che non si esibivano insieme in Italia, se si esclude ovviamente il riavvicinamento all’ultimo Festival di Sanremo con Carlo Conti che incitava il pubblico a prodigarsi nel coro: “Bacio, bacio” che nemmeno al gioco della bottiglia si fa più. Ma nonostante questo la coppia è tornata sul luogo del delitto: il palcoscenico, ed ha offerto ai fan più inossidabili e alle giovani generazioni uno spettacolo bulimico e con tempi televisivi da panico. Troppo lungo, troppa carne al fuoco, troppi ospiti liquidati anche in malo modo per mancanza di tempo e, ciliegina sulla torta, Pippo Baudo che ormai ha i tempi televisivi di un bradipo. Il Pippo nazionale ha ripercorso insieme alla coppia i momenti clou della loro “carriera artistica” riproponendo aneddoti, spezzoni di vecchie esibizioni e ricordando, naturalmente, la vittoria sanremese nel 1984 con il brano “Ci sarà”. Le pecche nel ritorno trionfale di Al Bano e Romina sono state davvero tante. Oltre alla lunghezza dello show, di cui abbiamo già trattato, oltre alla valanga di ospiti ed amici chiamati ad omaggiare l’ex coppia felice (da Lopez a Solenghi, passando per i Ricchi e Poveri ed Umberto Tozzi), oltre alla presenza sempre troppo ingombrante di Baudo, c’è stata la superflua apparizione di Kabir Bedi che si è cimentato con Romina nel “Ballo del qua qua” distruggendo definitivamente quel poco di credibilità e virilità che gli era rimasta (l’altra se l’era già ampiamente giocata sull’Isola dei famosi e come protagonista nell’agghiacciante quinta serie di Un medico in famiglia). Tutto questo per allungare un po’ di più il brodo e costringere il povero Al Bano a ripetere come un mantra che “il tempo è tiranno”. Romina poi legge un estratto del libro che ha scritto dedicato a sua madre Linda Christian, e dulcis in fundo la presenza da corollario del figlio della coppia, Yari che ha cantato un suo pezzo e si è profuso in commenti imbarazzanti sul genere umano: “Più me la faccio con gli esseri umani più son contento di essere un animale”. C’era davvero bisogno di un po’ di retorica caro Yari e dopo averti sentito cantare e parlare capisco il perché tu non abbia mai sfondato nel mondo della musica. Le canzoni culto ci sono state tutte: da Felicità a Nostalgia canaglia fino a Something Stupid incisa di recente dalla ritrovata coppia artistica. Naturalmente la Power è stata accusata di aver stonato (sai che novità, è una vita che lo fa) e di aver usato il playback in alcune esibizioni, ma a noi non ce ne importa nulla. A noi piace vederli sul palco che si punzecchiano, che si lanciano frecciatine e battute al vetriolo, che superano la loro crisi usando la tv come analista e il giudizio del pubblico (che li ama da sempre) come viatico per fare nuovi concerti ed intascare un altro po’ di denaro. Ogni volta che li vedo insieme sembra di partecipare ad una riunione di condominio, dove tutti si rispettano, si salutano, si intrattengono anche a chiacchierare, ma al minimo sopruso o al minimo sgarbo sono tutti pronti a far volare le sedie e a far piovere insulti come massi da un cavalcavia. E’bello vedere questo clima di finta armonia, di falsa felicità, e di tiratissima comprensione con la speranza che da un momento all’altro scatti la rissa e tornino di nuovo ad accusarsi in tribunale. Ma allora perché il pubblico li ama cosi tanto? Perché Al Bano e Romina, per anni, hanno fatto sognare milioni di persone. Lui, il ragazzo del sud pieno di valori ma di estrazione sociale modesta, lei, la ragazza americana, figlia di attori e conoscitrice del mondo dorato e patinato di Hollywood dal quale è fuggita; hanno fatto sempre sparare che l’amore potesse rompere tutte le gerarchie sociali e superare ogni barriera di perbenismo. Questo hanno rappresentato e rappresentano tutt’ora gli ex coniugi Carrisi: il sogno, la speranza, quella felicità che hanno tanto cantato ma nella quale forse hanno creduto troppo poco.

 

In tutto questo love affair mi domando se la Lecciso fosse a casa a guardare la tv e a mangiarsi i gomiti dalla bile. 

Falli ridere, falli piangere…falli aspettare”. Con queste parole Wilkie Collins nel lontano 1860 diede vita alla più rappresentativa delle sue opere: La donna in bianco, inaugurando il filone letterario del poliziesco moderno abbinato al mistery.

Il romanzo venne pubblicato a puntate, secondo la tradizione del feuilleton, dal 26 novembre 1859 al 25 agosto 1860, sulla rivista  “All the Year Round” dell’amico e mecenate Charles Dickens. Il racconto ottenne immediatamente un successo incredibile e ogni settimana i giovani uomini e le giovani donne inglesi attendevano con ansia di scoprire le vicende della bella e folle Anne Catherick, solitaria figura che appariva di tanto in tanto completamente vestita di bianco, e che somigliava in modo impressionante alla giovane e fragile Laura.

A fare da contorno alle due donne vi sono una serie di personaggi, dalla sorellastra di Laura, la determinata Marian Halcombe, al promesso sposo di Laura (Sir Percival) che nasconde un terribile segreto, al malvagio conte italiano che ordisce intrighi e sotterfugi (Fosco) passando per il maestro di disegno (Walter Hartright) follemente innamorato di Laura che farà di tutto pur di salvarla e non si darà pace finché non avrà scoperto il rompicapo che si cela dietro l’algida figura della donna in bianco.

All’inizio i lettori non conoscevano il nome dell’autore, solo in seguito si svelò ottenendo innumerevoli riconoscimenti. Collins divenne uno dei più celebri rappresentanti dell’Inghilterra vittoriana: ex studente di giurisprudenza, amante della buona cucina e dipendente dall’oppio. Nella sua carriera scrisse oltre trenta libri, più di cento articoli, storie, saggi e una dozzina di spettacoli teatrali.

Lo spunto per la narrazione gli venne fornito da un episodio della sua vita. Nel 1858 in una sera d’estate mentre stava passeggiando in compagnia del fratello Charles per Regent’s Park, si imbatté in una donna che era riuscita a fuggire da una villa situata nei pressi, urlando e chiedendo aiuto. La donna era tenuta prigioniera da un uomo che la usava come cavia per i suoi esperimenti di magnetismo. Da quella vicenda Collins attinse per costruire il suo racconto e divenne l’amante di Caroline Graves, la donna che aveva incontrato e che aveva aiutato.  

 

Il racconto viene snocciolato attraverso le testimonianze dei protagonisti (lettere, pagine di diario, confessioni, carte processuali, testamenti e perizie) che rendono la narrazione ancora più credibile, emozionante ed enigmatica allo stesso tempo. Solo Laura, la vittima sacrificale, e Sir Percival non partecipano alla disamina degli avvenimenti, la prima perché troppo debole, il secondo perché troppo colpevole. I personaggi sono descritti in maniera impeccabile, mediante una scrittura precisa e fortemente contemporanea che porta alla luce ogni minima sfumatura psicologica di ciascun protagonista, anticipando la capacità di raccontare e scavare all’intero dell’animo umano che solo agli inizi del ‘900 sarà completamente spiegabile e possibile grazie agli strumenti che Freud fornirà a tutti noi.

Una storia densa di segreti, misteri, inganni, sostituzioni di persone, dove il tema del doppio la fa da padrone generando trame e colpi di scena. L’autore inglese T.S. Eliot ne rimase affascinato tanto da etichettare La donna in bianco come “il più bello dei romanzi polizieschi inglesi moderni”. I racconti di Collins influenzeranno le generazioni di scrittori che, dopo di lui, si cimenteranno con il genere “giallo”: da Trollope a Conan Doyle, passando per la regina del brivido Agatha Christie.

 

Morì all’età di 65 anni sopraffatto dall’oppio e dalla paranoia che lo rese schiavo, sospettoso e convinto di essere vittima di persecuzioni. Collins aveva capito che ciò che i lettori amano di più è l’intrigo, e La donna in bianco, dopo oltre 150 anni, è ancora capace di far vibrare di emozione.

 

 

 

Passano gli anni, si alternano le trasmissioni, cambiano i personaggi ma rimane una sola grande certezza all’interno di questo nostro  sconquassato palinsesto televisivo ed è lei: Maria De Filippi, che con Amici edizione14, ancora una volta ha fatto man bassa di ascolti ergendosi, qualora ce ne fosse ancora bisogno, ad unica ed incontrastata regina della televisione italiana.

Alla “regina Elisabetta” nostrana non è bastato sabato 11aprile aggiudicarsi la guerra degli ascolti, non è bastato fare il pieno di share, non è bastato umiliare Antonellina Clerici che, di rosso vestita, non è riuscita nemmeno a portare a casa la pelle con la sua trasmissione “Senza parole” - un misto di pietismo, squallore con una consistente dose di piagnistei vecchia maniera e vecchia tv- ma Lady Mary ha voluto ribadire che Amici è la versione Mediaset del Festival di Sanremo.

Dentro Maria “la sanguinaria” De Filippi albergano varie donne: dalla pettegola che sta davanti all’uscio di casa a fare il “tagli e cuci” con le comari nel talk dei sentimenti “Uomini e donne”, alla ragazza sensibile e timida (quando intervista grandi star hollywoodiane) di “C’è posta per te”, passando per l’ironica e spensierata mattatrice di “Tu sì que vales” fino ad arrivare alla determinata, cinica ed anche un po’ megalomane di “Amici”.

Da tempo i ragazzi della scuola ed i professori sono stati confinati ad un ruolo di “contorno”, almeno per ciò che concerne la fase finale, e lo spazio è tutto risucchiato dallo show nel senso più crudo e spietato del termine. Durante la prima puntata del serale di “Amici”,ormai fucina di talenti ballerini e canterini, Maria non si è fatta mancare proprio nulla. I due capi squadra Elisa (squadra Blu) e “miss puzza sotto il naso” Emma (squadra Bianca) si sono date battaglia per aggiudicarsi le due manches. A giudicare i ragazzi e a dare loro consigli- la maggior parte dei quali nemmeno poi tanto bene accetti, gli allievi si sentono già dei divi- la veterana e sempre ben rifatta Sabrina Ferilli, la new entry Francesco Renga e giudice speciale –ahimé solo per una sera- il maestro Renato Zero. Dalla prossima puntata il “caso da riabilitare” Loredana Bertè prenderà il suo posto. Quarto giudice della serata Biagio Antonacci.

La gara, molto serrata, ha visto i ragazzi delle rispettive squadre duettare con artisti del calibro di Gianni Morandi ed i Modà. Ospiti stranieri gli “Sheppard” che hanno cantato il tormentone “Geronimo”. Il siparietto comico è stato affidato alla bella e brava Virginia Raffaele che ha imitato, manco a dirlo Belén, ed ha scherzato con Emma che, sempre più piena di sé, ha cercato di essere ironica (ma senza riuscirci) alle battute della Raffaele/Belén.

Maria, come un falco, ha vigilato sulla trasmissione. La mossa di portare Elisa nel talent è stata a dir poco geniale, la cantante friulana rappresenta, infatti, un modo di fare musica, non solo internazionale, raffinato e di classe, ma che si scosta da quella mediocrità imperante nel panorama musicale e di cui Emma, a mio avviso, è una delle rappresentanti maggiori. L’altro colpo di genio defilippiano è stato quello di ritagliare uno spazio-riflessione per Roberto Saviano. L’oratore ha intrattenuto il pubblico con uno dei suoi “sermoni”, ha sensibilizzato su temi quali immigrazione, rispetto per l’altro e tolleranza, il popolo urlante e nazionalpopolare di Amici. Togliersi di dosso a poco a poco il radicalismo chic di cui è sempre più imperniata la trasmissione di Fazio, non può che fargli bene.

 

Insomma tutti alla corte di Maria e noi non possiamo far altro che inchinarci dinnanzi a colei che, con le sue trasmissioni, trash o meno, rappresenta e descrive alla perfezione uno spaccato di Italia in continua smania e alla continua ricerca del proprio posto al sole. 

La dama velata rilancia la fiction Rai

Domenica, 12 Aprile 2015 10:30

Quando si dice fare centro! Finalmente mamma Rai ha partorito una fiction in costume capace di attrarre il pubblico con una trama avvincente e con protagonisti giovani, freschi, belli e soprattutto bravi. La dama velata è un successo di pubblico e di critica e ci regala un prodotto capace di intrigare e rinfrancare quella piccola ma consistente fetta d’Italia che non ne può più delle assurdità propinate dalla soap Il Segreto e che con faceva altro che rimpiangere da anni Elisa di Rivombrosa e le sue appassionanti storie.

La dama velata ambientata a Trento alla fine dell’Ottocento si inserisce alla perfezione all’interno del tessuto storico-sociale dell’epoca, attingendo a piene mani dal feuilleton (romanzo d’appendice che veniva pubblicato a puntate su quotidiani e riviste) ed ispirandosi liberamente al film di Alfred Hitchcock: Rebecca, la prima moglie, ma la trama è tutta moderna, nata dalla fantasia e dalla creatività di Lucia Zei.

Prodotta da RaiFction, Lux Vide e TeleCinco Cinema, diretta da Carmine Elia ed interpretata magistralmente dalla bella e brava ex miss Italia Miriam Leone e dal fascinoso Lino Guanciale, La dama velata racconta la storia di una ragazza (Clara) che, ripudiata dal padre poiché ritenuta responsabile della morte dell’amata moglie che morì dandola alla luce, viene cresciuta da una famiglia di contadini nelle campagne di San Leonardo, podere del conte Grandi gestito dal perfido cugino di Clara Cornelio (Andrea Bosca). Il conte Grandi (Luciano Virgilio) costringe Clara ad un matrimonio combinato per donare alla famiglia un erede maschio e per salvare l’onore minato dai rapporti equivoci che la ragazza ha intrecciato con Matteo, un trovatello cresciuto dalla stessa famiglia di contadini che ha accolto Clara. Il vecchio padre la costringe ad unirsi dunque con lo scapestrato conte Guido Fossà (Lino Guanciale) uno sfrontato strafottente, che passa le sue notti tra il tavolo da gioco, le prostitute e il bere, che si porta dietro un passato oscuro fatto di morte, intrighi, passioni e soprattutto ricatti. L’unione combinata si trasformerà ben presto in qualcosa di diverso e Clara, si troverà a fare i conti con i fantasmi del passato di suo marito. Gettata nelle acque dell’Adige e creduta da tutti morta, Clara ritornerà, come una novella Fu Mattia Pascal al femminile, coperta da un velo nero sul volto per scoprire tutta la verità sulla sua vita e sul suo passato. Ad ordine sordide e vendicative trame c’è la zia Adelaide (Lucrezia Lante della Rovere) che, mossa dall’interesse e dall’avidità insieme al figlio Cornelio, farà di tutto pur di assicurarsi il patrimonio della famiglia Grandi.

 

In questa fiction c’è un mix ben congeniato di thriller, mistery accompagnato da una buona dose di melò. Gli echi del Bildungsroman (romanzo di formazione) sono forti e palesemente evidenti. La nostra protagonista attraversa infatti tre fasi: dalla contadina spensierata, alla giovane donna infelice costretta a vivere intrappolata nelle convenzioni sociali ed in un matrimonio combinato, per finire velata e nascosta pur di ottenere il suo riscatto e raggiungere la verità. Può essere considerata sicuramente un’eroina moderna che rivendica il proprio spazio nel mondo e rappresenta la rivalsa del “sesso debole” sui soprusi degli uomini; insomma una Giovanna d’Arco in salsa trentina. Non mancano naturalmente abbandoni, ricongiungimenti, veleni, tradimenti e tutte quelle componenti che piacciono tanto a noi donne romantiche, e non ultima la storia d’amore che si insinua prepotente tra le pieghe del dramma. Una fiction che appassionerà sicuramente il pubblico femminile ormai stanco dei soliti processi in tv, delle trasmissioni spazzatura della D’Urso, del qualunquismo dei talk politici e soprattutto delle partite di calcio a tutte le ore del giorno e della notte!. 

Riparte alla grande "The Voice 2015"

Domenica, 08 Marzo 2015 10:48

La terza edizione di The Voice of Italy è iniziata ed ha già catalizzato milioni di telespettatori. Quest’anno si è fatta un bel lifting inserendo tra i giudici, oltre ai veterani Noemi, Piero Pelù e J-Ax, il duo padre-figlio Roby e Francesco Facchinetti. Una scelta azzeccata, se si tiene conto del fatto che Roby, frontman del mitico gruppo dei Pooh, sia una leggenda vivente e che suo figlio Francesco abbia la giusta dose di umiltà e sfacciataggine per affrontare ed incassare i colpi bassi e le accuse di essere un “raccomandato” che ogni giorno gli piovono addosso da tutti i social e non solo, dimostrando di avere le spalle molto larghe.

Ma torniamo al talent. Siamo alla seconda puntata, nella fase forse più interessante e stuzzicante ovvero quella delle blind auditions, dove i 5 giudici dando le spalle al palcoscenico, ascoltano senza vedere i giovani “talenti” che si esibiscono sul palco, girandosi solo nel caso in cui la loro voce li colpisca particolarmente. Una trovata geniale! Essere scelti per le proprie qualità, senza dare peso alle volte ad un aspetto fisico poco alla moda o addirittura ingombrante, o ad una sessualità indefinita o ancora in fase di transizione. Insomma a trionfare è la sostanza e non la forma e questo rappresenta uno degli ingredienti vincenti del talent. L’altro ingrediente sono i giudici, freschi, frizzanti, simpatici, immersi nel mood giusto e con lo stesso spirito di una scolaresca in gita: tutto può accadere, tutti gli equilibri possono rompersi e la voglia di giocare e trasgredire è più accattivante della voglia di fare a tutti i costi la cosa giusta. Il divertimento è la chiave di volta del programma. I giudici Sono spiritosi e fanno divertire il pubblico a casa, snobbando persone prive di talento canoro o valorizzandone altre con un linguaggio colorito e con espressioni estremamente popolari, per non dire “tamarre”. In questo ci da molta soddisfazione J-Ax. L’ex Articolo31 è la vera rivelazione del programma. Già lo scorso anno ci aveva dato notevoli soddisfazioni inserendo un po’ di pepe e di irriverenza nella trasmissione, ed anche in questa edizione non si è smentito; le sue “perle di saggezza” lasciano increduli e divertiti, riservandoci anche alcuni sprazzi di normalità, dimostrandosi al di là dei tatuaggi e dell’aspetto da bad boy, un’anima profonda, sensibile ed incredibilmente timida. Noemi, sempre alla ricerca di voci soul, dimostra di essere estremamente competente e precisa nelle sue scelte, quasi “snob”, pretendendo molto dalle voci che ascolta e dimostrandosi implacabile nei suoi giudizi. Piero Pelù invece è, a mio avviso, il più “fastidioso” del gruppo, troppo “gentista”, troppo “paladino della giustizia” troppo in spirito “centro sociale” diventando alle volte irritante e fuori luogo; con questo non vogliamo mettere in discussione le sue qualità canore e la sua storia musicale, anche se i pantaloni di pelle aderenti alla sua età risultando a lungo andare un po’ stucchevoli.

Pagina 13 di 15