La fiction “Cuori” andata in onda ieri sul primo canale nazionale ha il sapore del melò, sia per ambientazione, anni ’60, sia per impostazione della storyline: medical drama di sicuro impatto sul pubblico generalista, mescolanza di privato (molto) e pubblico, dinamiche ospedaliere, triangoli amorosi e un unico grande obiettivo: eseguire il primo trapianto di cuore al mondo all’Ospedale “Le Molinette” di Torino, che fa da sfondo alle vicende del primario, il visionario e work alcoholic, Cesare Corvara (Daniele Pecci), della sua giovane moglie, la cardiologa Delia Brunello (Pilar Fogliati) e del suo pupillo, il chirurgo Alberto Ferraris (Matteo Martari). Sostanzialmente la trama di questa serie in otto puntate è racchiusa tutta nel titolo: cuori che vengono man mano rimessi a posto in sala operatoria e i cuori dei protagonisti che tra passioni, gelosie e sensi di colpa si aggirano tra i corridoi del nosocomio torinese, restituendoci uno spaccato dell’Italia del boom e del progresso tecnologico e scientifico. Un bel pezzo di storia del nostro Paese dal quale, peraltro, non ci siamo mai staccati, sempre smaniosi (specie nelle trasmissioni televisive) di far rivivere quel periodo d’oro che difficilmente tornerà, non fosse altro perché veniva dopo una guerra atroce. A parte le scenografie super azzeccate, l’atmosfera di quegli anni resa nella totalità, comprese le acconciature improponibili, e la voglia di emancipazione, la peculiarità e, di fatto, il motore di “Cuori” è che tratta, mediante il personaggio della Fogliati, il tema del pregiudizio sul luogo di lavoro. La dott.ssa Brunello è discriminata in quanto donna, derubricata a “signorina”, anziché essere chiamata con il suo titolo, è oggetto di maldicenze (per le minigonne che indossa) e sospetti (i pazienti non si fidano e le preferiscono un dottore uomo), ed è mal vista dai colleghi che la accusano - Ferraris in primis, con il quale ha avuto una relazione in passato - di aver sposato il primario per fare carriera. Insomma, sono passati 54 anni (dal 1967, anno in cui si svolgono i fatti) e per le donne non è cambiato nulla. O quasi. Nonostante oggi rivestano ruoli di rilievo, la stragrande maggioranza di loro è ancora vittima di quegli stessi preconcetti e di quelle stesse dicerie. Una ferita nella società dei giorni nostri che chissà se e quando riuscirà mai a cicatrizzarsi. Siamo sinceri, quante volte ci siamo imbattuti in persone intellettualmente oneste come Corvara capaci di riconoscere in un collega donna delle capacità superiori a quelle di un uomo? Tuttavia, noi restiamo fiduciosi, come Brunello, che quando viene allontanata o messa in un angolo, ci prova e ci riprova ancora. Fiera, sicura di sé e certa di valere molto più degli altri.
La struttura è sempre la medesima: il morto ammazzato, il protagonista vittima sacrificale che trova il proprio riscatto solo alla fine (in genere nell’ultima puntata) e l’inquisitore che scava nel passato del presunto omicida per portare a galla la verità. Nel 99,9% dei casi, il protagonista è un uomo tenebroso, tormentato, disgraziato. Sembra questo ormai il mantra che recitano nella stanza dei bottoni di viale Mazzini, e la giaculatoria è talmente tanto oliata che neppure l’ultima serie - prodotta da Lux Vide e Sony Pictures in collaborazione con Rai Fiction e Big Light Productions ed in associazione con France Télévision, RTVE e Alfresco Pictures - è da meno. Sto parlando, ovviamente, di Leonardo: la miniserie in quattro puntate che racconta il genio italico famoso in tutto il mondo e padre indiscusso della maggior parte delle invenzioni di cui possiamo disporre oggi, oltre ad essere stato un eccelso studioso di anatomia, alchimia, botanica. Tutto parte da un quadro mai rinvenuto, Leda e il Cigno, di cui sono visibili solo i disegni preparatori e considerato il capolavoro dell’artista di Vinci, e da un delitto: la bella modella Caterina da Cremona (Matilda De Angelis, The Undoing) viene ritrovata morta avvelenata e tutti i sospetti ricadono su Leonardo (Aidan Turner, Poldark). Ad indagare sulla vicenda, l’ufficiale del Podestà, Stefano Giraldi (Freddie Highmore). Leonardo ora vive a Milano, in seguito alla fuga da Firenze dove non se la passava troppo bene: accusa di sodomia, allontanamento dalla bottega del Verrocchio (episodio mai avvenuto, in realtà), rapporto conflittuale con il padre e bisogno impellente di far accettare la propria arte basata sull’esperienza, “io dipingo ciò che vedo”, è solito ripetere. Scritto da Frank Spotnitz, già autore de I Medici, e Steve Thompson, la storia viaggia sul filo sottilissimo del vero, del verosimile e dell’inventato, espediente al quale Spotnitz ricorre sempre più spesso per rendere i propri prodotti accattivanti, sennò - per dirla con le parole di Matilda De Angelis a Domenica In – «non è che si può fare na rottura de palle su Leonardo da Vinci». In mezzo, qualche quadro (Il battesimo di Cristo, nel quale Leonardo dipinse il volto dell’angelo sulla sinistra; e il ritratto di Ginevra De’ Benci) e svariati rimorsi di coscienza tanto al chilo. L’artista viene ritratto come un ragazzo timido, introverso, non ancora consapevole della propria grandezza. Un uomo in balia degli eventi che lo portano alla corte di Ludovico Sforza. In sottotraccia, ma neppure così tanto, il tarlo che lui sia responsabile di tutte le sciagure dell’umanità e che sia davvero “maledetto”, come era stato profetizzato alla madre quando lui era solo un neonato (altro elemento inventato). Leonardo è un buon prodotto, sia dal punto di vista interpretativo che scenografico, ma risente di quella patina di “americanata” tale per cui sembra costantemente di assistere ad una trasposizione dei libri di Dan Brown, dove ipotesi strampalate, misticismo, esoterismo, risoluzioni sconclusionate e rapporto uomo/donna (un po’ troppo all’avanguardia per l’epoca in cui sono ambientate le vicende) sono dietro l’angolo. La costruzione stessa della fiction intorno al quadro mai trovato e che rappresenterebbe proprio Caterina (della cui esistenza si ha traccia, perché citata in una corrispondenza in cui Leonardo le chiede di fargli da modella) ha la tragica consapevolezza di quando compri una borsa griffata su internet e poi scopri che è un falso d’autore. Il mistero ha sempre il suo fascino, così come la ricerca dell’assassino, in questo caso, un po’ telefonato, ma far ruotare tutti e 8 gli episodi intorno a questo elemento, compresi i flashback di uccelli svolazzanti e preannunciatori di sciagure, è forse un po’ troppo. Anche perché i passaggi in cui l’aspetto umano (vedi omosessualità e rapporti interpersonali) viene fuori rappresentano notevoli punti di forza.
Devo confessarlo: sono una fan sfegatata del Commissario Ricciardi. Questo personaggio fuori dal comune -nato dalla prolifica penna di Maurizio De Giovanni - ha il volto di uno straordinario Lino Guanciale, chiamato a dare corpo ed anima ad uno dei protagonisti più enigmatici della letteratura noir contemporanea. Sei film per altrettanti libri, dove il noir si mescola al giallo e al melò nel contesto della Napoli anni ’30. Il merito di questo encomiabile lavoro di equilibrio e misura va al regista, Alessandro D’Alatri e all’intero cast, quasi totalmente napoletano. Una prova d’attore che Guanciale restituisce in maniera impeccabile, giocando sulla potenza dello sguardo, sui suoi magnetici occhi verdi e su di una espressività facciale che comunica molto più delle parole. Perché Ricciardi non è uno che parla tanto. È cupo, ombroso, taciturno; ma, allo stesso tempo, è sensibile, empatico e capace di fare proprio il dolore delle persone, dare loro giustizia, mettendo in pratica, maniacalmente, la sola cosa che conosce: il lavoro. Con il suo impegno quotidiano allevia la sofferenza di quei morti di morte violenta che lo perseguitano, ripetendogli in maniera ossessiva il loro ultimo pensiero prima di morire. Ricciardi vive il dolore costantemente. Ad ogni angolo della strada vede i fantasmi di quelli che non ci sono più, ai quali non può donare la pace che cercano. Il mondo dei vivi si intreccia a quello dei morti e lui, spettatore alla finestra, non può fare altro se non continuare ad osservare e a convivere con il suo dono che è anche una maledizione. Ma quella finestra sul suo mondo di sofferenza e malinconia lascia intravedere uno spiraglio di umanità: la possibilità di essere felice. Enrica. La vicina di casa di cui lui è innamorato (corrisposto) che ogni sera, immancabilmente, si attarda nelle sue mansioni domestiche, volgendo un occhio alla lastra di vetro che ha di fronte, nella speranza che lui (di cui in prima battuta non conosce neppure il nome, men che meno la professione) si affacci. Un amore fatto di sguardi, di silenzi carichi di speranza. Di attese che aspettano solo di essere trasformate in occasioni concrete. Enrica attende, con animo gentile e paziente, ma determinato. Maria Vera Ratti incarna al meglio questa ragazza poco più che ventenne, abituata a vivere in casa, in un universo, quello familiare, che è tutto il suo essere. Un amore poetico. E poi c’è lei: Livia Lucani Vezzi (Serena Iansiti). La vedova del grande tenore Arnaldo Vezzi che si invaghisce di Ricciardi quando il cadavere di suo marito è ancora caldo. Una donna di una bellezza felina, dal profumo esotico, dice di lei De Giovanni. Una donna piena di fragilità che però vorrebbe accompagnare il Commissario nel suo cammino verso la luce. La tata Rosa (Nunzia Schiano), di contro, è tutto ciò che resta della famiglia del barone di Malomonte. Tenace, attenta, meticolosa, che adora il suo “signorino” e vorrebbe vederlo sistemato. Un uomo che non capisce fino in fondo, ma che ama in modo viscerale ed incondizionato. E poi ci sono i due amici di Ricciardi: il dott. Bruno Modo (Enrico Ianniello), antifascista, e il brigadiere Raffaele Maione (Antonio Milo), devoto al Commissario da quando egli li riportò l’ultimo pensiero del figlio Luca, morto in un’azione di Polizia. Il Commissario Ricciardi è un prodotto diverso da quelli a cui la Rai ci ha abituati, osando con un personaggio di non facile prima lettura ma che, passo dopo passo, ti cattura. E gli ascolti lo confermano: sei milioni di telespettatori per la prima puntata, 5.7 milioni per la seconda con il 23.5% di share. Ricciardi vive in un tempo sospeso, tra passato e presente. Ci porta nei vicoli di Napoli, dove la contraddizione è il sale della vita, dove vige l’ingiustizia del fascismo e del clientelismo, dove si uccide per “fame e per amore”.
Mina Settembre, la nuova fiction di RaiUno che ha per protagonista l’attrice e cantante napoletana, Serena Rossi, fa centro, regalandoci un prodotto godibile, allegro, spensierato (visti i tempi cupi e di incertezza che stiamo vivendo causa Covid) e in linea con la messa in onda della rete ammiraglia, carico di personaggi positivi che esaltano i buoni sentimenti. Nata dalla penna di Maurizio De Giovanni, prolifico scrittore partenopeo, autore (tra gli altri) de Il commissario Ricciardi - dal 25 gennaio sempre su RaiUno - Mina Settembre è un’assistente sociale presso il Consultorio del Rione Sanità. Una vita spesa per gli altri, a risolvere i problemi legati ad uno spaccato della società che spesso si tende ad occultare, negare o, semplicemente, ignorare, facendo finta che non esista. Ecco, Mina sta dalla parte dei più deboli, dei più fragili, donandoci la sua umanità, la sua capacità di commuoversi e la sua empatia. Il tutto condito dal talento di Serena Rossi che, dai tempi in cui interpretava Carmen ad “Un posto al sole”, ha dimostrato di stare bene in qualsiasi ruolo le venga assegnato - vedi alla voce Mia Martini. Come ogni storia che si rispetti, il triangolo è dietro l’angolo, come pure la storyline che accompagna la protagonista alle prese con un piccolo segreto di famiglia da risolvere. Mina, infatti, si divide tra l’amore che prova (ancora) nei confronti del marito fedifrago Claudio - Giorgio Pasotti; e il ginecologo del Consultorio, lo scanzonato e piacione Domenico (Giuseppe Zeno) che cerca in tutti i modi di far capitolare la bella Mina. Una foto trovata per caso in una cassaforte, accompagnata da una lettera scritta per metà dal padre morto mesi prima, tinge questo dramedy sentimentale di giallo. Mina non riesce a smettere di pensare alla donna ritratta nella foto e vuole saperne di più. Intorno all’universo Settembre gravitano personaggi tipici della commedia: la madre (Marina Confalone), una borghese altolocata incontentabile e snob; e le due amiche Irene (Christiane Filangieri), avvocato di grido e maniaca del controllo, e Titti (Valentina D’Agostino), allegra e frizzante proprietaria del bar in cui le tre amiche si incontrano ogni sera per raccontarsi le loro vicende quotidiane. Un trio pimpante e scanzonato, a metà strada tra Sex and the City e Charlie’s Angels, odierne eroine metropolitane. A fare da cornice, lo splendido scenario di una Napoli che mescola alto e basso: rione sanità, Gianturco, la vista mozzafiato che si ammira dalla funicolare di Montesanto, il Vomero, il porticciolo di Mergellina e tutti i posti più belli e suggestivi della città. Una fiction godibile, lontana anni luce dalle atmosfere drammatiche de L’amica geniale, che mette al centro la figura dell’assistente sociale che si fa in quattro per gli altri alle volte contro la loro stessa volontà. Tuttavia, si sarebbe potuto rischiare di più, approfondendo determinati contesti sociali, ponendo sotto l’occhio sonnecchioso del telespettatore di RaiUno certe situazioni di grande degrado, pane quotidiano per chi svolge questo mestiere. Invece, la sensazione che si ha è quella di voler ammantare sotto il mantello dell’invisibilità ciò che potrebbe urtare lo spettatore medio, turbarlo e non rendere rassicurante una fiction che nasce proprio con l’obiettivo di esserlo. La risoluzione dei casi che Mina affronta, il più delle volte, è affrettata, rocambolesca, quasi troppo facile per corrispondere alla realtà dei fatti, e restituisce una venatura di artefatto e di poco realistico. Un prodotto che ha fatto registrare ottimi ascolti (una media di 6 milioni di spettatori e il 23% di share), ma se si vuole competere contro le corazzate delle piattaforme streaming (una su tutte Netflix) bisogna osare qualcosa di più.
Diodato è il vincitore della 70esima edizione del Festival di Sanremo con il brano “Fai rumore”. Insieme a lui sul podio: Francesco Gabbani con la sua “Viceversa” e la rivelazione dei Pinguini Tattici Nucleari che hanno cantato “Ringo Star”. Premio della Critica “Mia Martini” al cantante pugliese che incassa anche il Premio Sala Stampa “Lucio Dalla”. Mentre, il Premio “Sergio Bardotti” per il miglior testo - assegnato dalla Commissione Musicale” - va a Rancore con “Eden” scritta dal rapper romano in collaborazione con Dario Dardust Faini. Premio “Giancarlo Bigazzi” per il miglior arrangiamento alla bravura di Tosca che ha portato sul palco dell’Ariston un brano soave come “Ho amato tutto”, scritta per lei da Pietro Cantarelli. Invece il Premio Tim è stato vinto da Gabbani che ha cantato un pezzo diverso sia per sonorità che per testo da quell’Occidentali’s Karma che gli valse la vittoria nel 2017. Quello che ricorderemo più di ogni altra cosa di questo Festival, al di la degli ascolti stellari - ieri sera si è chiuso con il 60% di share - è lo show. Perché Sanremo, fatte salve le canzoni, è spettacolo, intrattenimento, polemiche aizzate prima, durante e dopo, mode lanciate, liti scoppiate dal nulla (vedi alla voce Fiorello/Ferro e Bugo/Morgan) e gaffe imbarazzanti: insomma è lo specchio del nostro Paese spalmato in cinque (lunghissime) serate. Un’occasione per sentirci popolo, solido e fiero come l’orgoglio che ci sale in petto quando sentiamo l’inno di Mameli suonato dalla Banda dei Carabinieri. Poche volte ci accade di accapigliarci su qualcosa di così nazionalpopolare che non sia il calcio. Il Festival dei record targato Amadeus ha potuto risplendere grazie a Fiorello. Lo show man italiano per eccellenza, l’uomo capace di farti sbellicare parlando dei problemi prostatici degli uomini, dando una sonora spallata al machismo che tanto imperversa ultimamente nel nostro bel Paese, colui che con la perenne allegria da capo comico del Villaggio Vacanze fa del cazzeggio la cifra stilistica della sua goliardia. Un’artista in grado di tenere il palco come nessuno, che entra nel bel mezzo dell’assurda lite in diretta tra Bugo e Morgan (dove quest’ultimo le canta all’ormai ex amico, tacciandolo di ingratitudine e di essere sostanzialmente un cantante mediocre) esternando quello che è il pensiero di tutti “Eleggiamo in vincitore stasera (venerdì) e andiamocene tutti a casa”. Tanto è stato d’impatto questo Festival 2020 che già i vertici Rai pensano ad un Amadeus/Fiorello bis. Tra i momenti flop di Sanremo70 mi piace ricordare, così per pure sadismo, il monologo nonsense di Diletta Leotta nel quale ha sottolineato come non debba essere una colpa nascere belle (davvero Diletta? L’hai detta davvero questa cosa?), pare di sì, ahinoi. La performance della cronista di Dazn diventa aberrante se la si coniuga al balletto trash con annessa “Ciuri Ciuri” cantata in playback sulle note di un pezzo di Eminem. Di tutt’altra caratura l’intervento della giornalista Rula Jebreal che ha toccato gli animi con il racconto della mamma vittima di violenze e in seguito morta suicida. Una lezione di umanità ed un inno contro la violenza sulle donne che difficilmente dimenticheremo. Come difficilmente dimenticheremo il bacio tra Tiziano Ferro e Fiorello a suggellare una giornata di incomprensioni, o gli omaggi del cantante di Latina ai grandi della musica italiana. È vero. Tiziano si è lasciato un po' prendere la mano e quando sei un artista di quel livello ti si perdona poco tutto, specie l’emotività, ma quanta emozione! Altro momento top, la presenza del giovane Paolo Palumbo affetto da Sla che ci ha regalato per voce dell’amico Christian Pintus la sua “Io sto con Paolo”. E infine il monologo di Roberto Benigni in versione “divulgatore scientifico” che ha deliziato il pubblico poco reattivo dell’Ariston e l’Italia tutta con l’esegesi e la lettura de “Il Cantico dei Cantici”. Troppo per la prima serata di RaiUno? Un po' deludente la mancata standing ovation se si pensa che la si è fatta per la Réunion dei Ricchi e Poveri. Menzione speciale per l’eleganza vocale di Tosca, il rap a mitraglia di Rancore, l’anima rock di Piero Pelù e la grazia di Elodie. Ulteriore menzione speciale per la kamikaze di questo Festival: Elettra Lamborghini e la sua inconsapevole esuberanza che rasenta, spesso e volentieri, l’inconsapevolezza di sé e dei suoi mezzi. Epico il suo twerking. Nessuno aveva mai osato tanto. Complimenti, Elettra! E complimenti anche ad Achille Lauro, in barba a coloro che storcono il naso di fronte a tanto eccesso. Siamo d’accordo, non ha molta voce e la canzone era deboluccia, ma Sanremo è anche spettacolo e quindi, grazie Achille per le tue tutine e i tuoi travestimenti. Se domani un ragazzino andrà a googlare il nome della Marchesa Casati per sapere chi lei sia, avrai vinto tutto!
Si prospettano tempi duri per i guidatori inclini alla velocità. Lo “Scout Speed”, posizionato direttamente sulle macchine delle Forze dell’Ordine, ha l’obiettivo di multare tutti colori i quali sfrecciano sulle nostre strade credendo di trovarsi sul circuito di Monza. Nato nel 2012 e diffusosi dapprima nell'area Centro Nord - il primo è stato testato a Rimini nell'ottobre del 2018, - la versione contemporanea del classico autovelox si sta diffondendo a macchia d’olio lungo il bel paese: l’ultimo, rilevato lungo la SS 106 che collega Basilicata e Calabria, in zona Villapiana (Cosenza), in Campania e in quasi tutta l’Italia centrale, per un complessivo di 38 postazioni mobili ed “invisibili”. Il rilevatore di velocità ha come particolarità quella di non essere posizionato su strada e di non aver bisogno di alcun cartello che ne segnali o certifichi la presenza, secondo quanto stabilito dalla Legge Minniti del 2017 che afferma la non applicabilità «dei dispositivi di rilevamento della velocità mobili (installati a bordo di veicoli) per la misura della velocità in modalità dinamica, vale a dire in movimento, in coerenza anche con quanto previsto dall'art. 3 del più volte richiamato DM 15 agosto 2007», riforma dell’allora ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Alessandro Bianchi. Dotato di una telecamera, di un radar che invia impulsi radio ai veicoli da sottoporre ad accertamento e di un illuminatore a infrarossi, lo “Scout Speed” si accerta, a 360 gradi e fino ad una velocità di 270 km/h, che tutti i mezzi in movimento, indipendentemente dal senso di marcia, rispettino il codice della strada. Inoltre, il sistema ad infrarossi gli consente di essere operativo h24, vale a dire anche nelle ore serali e notturne. Altresì, il collegamento con le relative banche dati dei ministeri delle Infrastrutture e dell’Interno permettono di rilevare la targa del veicolo, reo di aver compiuto un abuso, di controllare in tempo reale se l’auto in questione è regolarmente assicurata e sottoposta ai controlli di revisione previsti dalla legge e di evidenziare eventuali divieti di sosta. La ripresa frontale operata dal dispositivo garantisce l’anonimato dell’automobilista. Le multe sono salate: vanno da €40 fino a oltre 3 mila euro. La validità delle suddette è controversa. Alcuni sostengono che non lo siano, dal momento che il dispositivo dovrebbe essere sempre segnalato, ma come abbiamo potuto constatare la legge del 2017 stabilisce l’esatto opposto e il ministero delle Infrastrutture considera lo “Scout Speed” una sorta di eccezione alla regolamentazione del Codice della Strada. Le pattuglie della Polizia locale, infatti, sono postazioni in movimento per cui non sussiste la necessità di segnalare il dispositivo di rilevamento. Lo “Scout Speed” è sottoposto a controlli annuali per verificarne la taratura presso un laboratorio specializzato con relativa annotazione sul verbale, se questa non è presente l’eventuale ricorso da parte del conducente annulla, di fatto, la multa emessa. L’unico modo per scampare al temibile autovelox itinerante è rispettare le leggi della strada, essere in regola con i pagamenti e portare a controllare il nostro mezzo di trasporto. Dopotutto, se le norme esistono è bene che vengano rispettate.

L’importanza del profumo dei libri

Domenica, 10 Febbraio 2019 11:29
I booklovers lo sanno bene. Il profumo dei libri è qualcosa di inebriante, che crea dipendenza. Entrare in una libreria ed annusare centinaia di volumi disposti negli scaffali ed incolonnati per autore, casa editrice, anno di pubblicazione: è una medicina per l’anima. I libri, vecchi e nuovi, emanano una varietà di profumazione, frutto dei composti - tra cui la lignina che aiuta le fibre di cellulosa a concatenarsi insieme e anche responsabile dell’ingiallimento e del percorso finale dell’ossidazione e della degradazione del volume - con i quali vengono realizzati e che, nel corso del tempo, si volatilizzano, conferendo loro quella tipica fragranza: il classico profumo dei libri. Tuttavia, l’aroma dei libri è diverso. Per un’enciclopedia è necessario l’utilizzo di una carta specifica e una lavorazione tale da mantenerne nel tempo la stabilità e la consistenza; mentre, per una pubblicazione che avrà una vita più breve, vengono utilizzati composti con una minore concentrazione. Oggi vengono utilizzati procedimenti chimici per abbattere l’uso di lignina, amalgamando la cellulosa con le fibre di cotone naturale sottoposto ad idrolisi e ad altre lavorazioni al fine di fornirci un prodotto di alta qualità resistente nel tempo.
Fedele Temperini è il nome del soldato che salvò la vita ad un giovanissimo Ernest Hemingway, durante la I Guerra Mondiale. La trincea sull’argine del Piave, a Fossalta, dove il giovane della Croce Rossa si era recato per portare cioccolato e sigarette ai combattenti e per raccogliere cronache di guerra, venne colpita nella notte dell’8 luglio 1918 da un colpo di mortaio partito dalle linee austriache che dilaniò il corpo di un giovane militare che si trovava di fronte al giornalista, facendogli da scudo. Tuttavia, Ernest rimase gravemente ferito. Condotto nell’ospedale da campo e scongiurata la sventurata ipotesi del taglio della gamba, causa cancrena, Hemingway guarì e trasferì tutta la sua avventura in quel piccolo cimelio che è “Addio alle Armi”. Secondo il biografo James McGrath Morris, Fedele Temperini era originario di Montalcino e mai identificato prima d’ora. Lo stesso Hemingway non lo cita nel suo romanzo semi autobiografico forse perché, probabilmente, egli stesso non ne conosceva le generalità. In un libro uscito nel 2017, «The Ambulance Drivers: Hemingway, Dos Passos, and a Friendship Made and Lost in War», McGrath Morris ha raccontato l’esperienza e l’amicizia dei due giovani americani guidatori di ambulanze (e futuri scrittori) durante la Grande Guerra. In fondo al libro, ricorda il biografo, «avevo trascritto i nomi dei 18 soldati italiani che secondo i documenti ufficiali erano morti in battaglia nella notte in cui Hemingway fu ferito». Da quei diciotto nomi, «con l’aiuto dello storico Marino Perissinotto, siamo riusciti a individuare quello del giovane soldato che salvò la vita a Hemingway». Identificando i luoghi dove erano dislocati i reparti dei 18 soldati, la caccia si restringe a tre che sono caduti in quell’area l’8 luglio. Due appartenevano al 152° Reggimento di Fanteria della Brigata Sassari, che però si trovava a qualche distanza dal Piave. Il terzo invece era del 69° Reggimento della Brigata Ancona, che stazionava proprio sulla prima linea, a Fossalta, «nella zona dove si registrarono i combattimenti più duri». È questo terzo soldato caduto «il salvatore» di Hemingway, secondo la ricostruzione di McGrath Morris e Pessinotto: i registri dell’esercito riportano il nome di Fedele Temperini, di Montalcino, in Toscana. Aveva 26 anni, Fedele, uno dei 600 mila ragazzi che morirono facendo muro all’avanzata austriaca sulla linea del Piave. Il sacrificio di questo valoroso soldato ci ha permesso, oggi, di godere dei lavori di un appassionato cronista e di un pregevole scrittore come Hemingway, afflitto da una turbolenza interiore che lo spinse a viaggiare di continuo senza mai trovare pace, salvo che nella scrittura. Un uomo forte ma al contempo fragile. Ricco di contraddizioni e zone d’ombra, proprio quelle ombre che lo spinsero, un mattino del 2 luglio 1961, a togliersi la vita sparandosi un colpo di fucile.
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